La tradizione della «Passio sancti Agapeti martyris»

Chi è stato veramente s. Agapito? Un martire di Praeneste. Tutto il resto che si presume di sapere sull’Agapito storico è il retaggio della ricca tradizione letteraria medievale, scritta in latino e parzialmente nota agli studiosi di cose prenestine ma mai sottoposta a strutturali indagini filologiche. Un simile approccio ha ridotto le Passioni di s. Agapito, le narrazioni della sua vita e del suo martirio, a fonti storiche, laddove non sempre era possibile od opportuno. Obliterandone, di conseguenza, il valore letterario. Alla scoperta di queste opere è stata dedicata la mia Tesi di Laurea in Letteratura Latina Medievale.
I secoli hanno conservato almeno tre differenti Passioni, che nella Tesi si è dimostrato derivare, indizi filologici alla mano, da un testo originale, perduto, collocabile entro l’arco cronologico 830-855. Prima di allora, della vita di Agapito nulla si sapeva o, meglio, nulla era stato scritto. I Martirologi storici più autorevoli erano avari di dati sul martire prenestino: il Geronimiano e quello del Venerabile Beda si limitano infatti a ricordare il martirio di Agapito a Preneste, a 33 miglia da Roma. Null’altro. Ma poco prima della metà del IX sec. un anonimo autore, probabilmente un monaco operante in Francia, avocò a sé l’onore e l’onere di compilare una Passione di Agapito sei secoli dopo la sua morte. Con invenzioni letterarie dunque, che intorno all’850, con l’impero di Carlomagno ineluttabilmente in disgregazione, diedero alla luce la “storia” di Agapito: un quattordicenne cristiano, predicatore di ineguagliabile facondia, dalla tempra d’acciaio e capace di compiere miracoli vieppiù strabilianti. I Martirologi storici redatti dopo la metà del IX sec. cominciarono così a riportare le vicende che la tradizione ha reso note. Il primo autore conosciuto a inserire nel suo Martirologio la storia di Agapito fu nell’855 Adone di Vienne, monaco e Vescovo della Francia orientale. Egli dovette attingere alla Passione originale, dalla quale sorse parallelamente un famiglia di testi.

La Passione più celebre, e la più diffusa, è la cosiddetta mombriziana, databile tra l’855 e il 900 e trascritta da Boninus Mombritius, umanista milanese autore dell’enciclopedico Sanctuarium seu Vitae Sanctorum. Egli attinse a un manoscritto austriaco, il Codex Vindobonensis, che riportava una Passione evidentemente poco nota. Il testo venne pubblicato non in edizione critica, con numerosi errori di interpretazione paleografica. Che si tratti della narrazione sulla vita di Agapito più fortunata lo dimostra la formidabile diffusione: sono ben 83 i codici che la riportano (testimoni), la maggior parte dei quali è conservata in Francia (33 manoscritti). Gli altri 50 testimoni sono divisi tra Italia, Vaticano, Austria, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Gran Bretagna. Tuttavia non si tratta del testo più vicino all’originale. Una differenza notevole la separa dal resto della tradizione, inserendola in un ramo separato. Si tratta della presenza di un personaggio, Anastasius, cornicularius (segretario) del principale persecutore di Agapito, Antiochus. Al personaggio oggi è fatto corrispondere s. Anastasio, persecutore di Agapito da questi convertito, la cui festa si celebra il 21 agosto e che nel testo originale non era menzionato. Malgrado sul piano narrativo la Passione mombriziana presenti differenze notevoli, sul piano linguistico conserva ancora molto dell’originale.

Le due altre Passioni di Agapito, meno diffuse ma narratologicamente più fedeli all’originale, sono state studiate nella forma pubblicata negli Acta Sanctorum, una monumentale opera in volumi, sorta di enciclopedia storico-letteraria in forma calendariale, che per ogni santo riporta una nota scientifica e il relativo corpus letterario. Le due Passioni degli Acta provengono una da un manoscritto burgundo (Francia centro-orientale) e una da un manoscritto di Montecassino. I due testi sono accomunati dall’assenza del personaggio Anastasius, per il resto divergono sensibilmente. Il testo burgundo, molto più fedele all’originale, del quale è tuttavia una riscrittura in bella forma, è riportato in soli nove manoscritti, perlopiù francesi, e uno solo italiano, conservato a Milano; la datazione va inclusa nell’arco cronologico 901-1000. Più tarda, testimoniata da un solo manoscritto e soprattutto quasi irriconoscibile in confronto alle altre, la Passione cassinese fu scritta probabilmente nel XII secolo. Si tratta di un testo notevolmente più lungo, che condivide poco con le altre redazioni: diverso lo stile, molto differenti i personaggi e vicende.

Vi è infine una quarta redazione della Passione, forse la più curiosa. Si tratta infatti del racconto relativo a san Venanzio di Camerino, il cui testo, a detta degli studiosi precedenti, sarebbe stato tratto pedissequamente da una delle narrazioni di Agapito. Tuttavia mai nessuno ha dimostrato la derivazione in modo filologicamente incontrovertibile. Anche in questa direzione è stato condotto il lavoro della Tesi. Il confronto più fecondo è stato con la Passione mombriziana: alla fine, in effetti, la derivazione è stata verificata; circa 100 anni dopo che l’anonimo scrittore della Passione di Agapito (mombriziana) aveva dato alla luce la sua opera, un altrettanto anonimo autore la conobbe, e, fatti i dovuti adattamenti trasformando Agapito in Venanzio e Preneste in Camerino, vergò a sua volta un’opera letteraria.

Testi dunque, narrazioni, letteratura. Non documenti. Per questo alle Passioni fin qui analizzate, e dunque alla letteratura agiografica su s. Agapito, non si può chiedere di raccontare la vera storia del martire senza distorsioni storiografiche. Le Passioni di Agapito sono opere dell’ingegno di persone vissute in precisi ambienti storici e culturali, con competenze e capacità variabili, e con tutta la soggettività umana (tratto distintivo di tutta la letteratura agiografica medievale). Ma contemporaneamente sono traccia dell’esperienza degli scrittori con coloro che della scrittura medesima sono i protagonisti. Con Agapito, dunque. E leggendo le Passioni, una valenza storica la si trova; si torna non al III secolo, ma al IX, quando i testi furono scritti, per risalire nei secoli nella nostra direzione. E non bisogna incappare nell’errore di bollare come sintetica la letteratura agiografica. Se è vero essa corrobora dati storici spesso esigui con una profusione di topoi letterari, è altrettanto vero che non si tratta di un’espediente o di una mistificazione. Il meccanismo di imitazione è piuttosto una garanzia: come il santo martire, campione della cristianità, ha in Cristo il modello di vita, così la letteratura sui santi ha nella letteratura cristiana, anzitutto scritturale, il modello linguistico e narrativo. Una letteratura, dunque, lungi dall’essere mera imitazione o compilazione a fini devozionali, parenetici od omiletici.


L’habitus di un articolo non specialistico ha reso necessaria una semplificazione drammatica ed estrema, che non dà conto della complessità dei rapporti intertestuali e delle configurazioni storico-critiche di una tradizione letteraria ricca come quella di Agapito. Se fino a qui sono state espresse soltanto conclusioni, il complesso lavoro filologico sotteso ad esse non è stato neanche sfiorato. La stessa Tesi, per sua natura rigida, dà conto dei soli aspetti filologici, critici e linguistici, obliterando il santo a favore del personaggio letterario.

Il Caravaggio di Palestrina

«Michelangelo di Caravaggio, che sta facendo cose mirabili a Roma» e ha ottenuto «grande reputazione e onore». La descrizione di Karel van Mander, artista e biografo olandese, è l’attestazione contemporanea della fama caravaggesca, straripante ben oltre le Alpi già nel 1604. Ma il gaudio di Merisi, reduce dall’incredibile serie di tele Contarelli e Cerasi, volgeva al termine; accecato dal suo «temperamento focoso», in uno dei tanti duelli della sua vita uccise Ranuccio Tommasoni; da cui la fuga per tutta Europa. E proprio durante gli anni difficili, forse passando per Palestrina, Caravaggio avrebbe dato alla luce il S. Agapito, l’opera che dalla città è stata portata via quarant’anni fa e che oggi torna, in tutto il suo restaurato splendore, nell’allestimento definitivo nel Museo Diocesano d’Arte Sacra.

L’incontro dello scorso sabato, lungi dall’essere un mero taglio del nastro, ha avuto il merito di immergere gli astanti nell’atmosfera della ricerca, mostrando l’abissale differenza tra l’arte, fatta di certezze come le opere, memoria di un passato sovente inintellegibile, e la storia dell’arte, fatta di problematicità, documenti, fisica e chimica, talvolta di traguardi e affermazioni, altrettanto spesso di appendici palinodiche. E la scelta degli organizzatori di portare alla ribalta voci discordanti ha reso l’occasione un evento. Malgrado, alla fine, il mistero non sia stato chiarito. Sulla scorta degli studi attuali non è infatti possibile stabilire in maniera incontrovertibile l’attribuzione, né identificare il soggetto; piuttosto sono state chiarite le direttrici di future e più circostanziate analisi. Così dopo il rassicurante, riflessivo benvenuto del Vescovo Mons. Sigalini, mediatore il noto vaticanista Fabio Zavattaro, ha iniziato il prof. Maurizio Marini con una prima, panoramica lettura del problema e poi, in termini piacevolmente romanzeschi, con il racconto del rinvenimento che egli stesso ebbe a effetture nel 1967 nella chiesa carmelitana di S. Antonio. Assai di rado gli scopritori di opere d’arte parlano direttamente al pubblico, e ascoltare dalle sue stesse parole come andarono i fatti ha regalato un momento di grande fascino, lo stesso della ricerca sul campo. Marini arrivò a Palestrina, in quell’occasione, su segnalazione del grande storico dell’arte Roberto Longhi, che gli aveva segnalato una copia del Seppellimento di Santa Lucia, opera siracusana di Caravaggio. L’incontro fu quasi fortuito: recandosi nel locale dove era la Santa Lucia, trovò la tela, negletta in una posizione poco visibile. Concretizzò la scoperta collegando l’opera a un documento napoletano che, a lui già noto, attestava la copia mai ritrovata di un Caravaggio raffigurante un «santo vescovo con la testa decollata». Nel quadro davanti a sé vide quella copia, e il santo gli parve essere, per iconografia e provenienza napoletana del documento, Gennaro. Furono gli studi successivi a rovesciare la prima ipotesi: il quadro dei carmelitani era l’originale; la copia attestata dalle fonti venne in seguito trovata altrove.

L’attribuzione a Caravaggio presenta però per gli studiosi ancora qualche difetto. Marini, dal canto suo, non ha dubbi: è un autografo; tutta la problematicità della questione è stata palesata dalla Sovrintendente Rossella Vodret, che ha fornito uno sguardo cursorio sull’entità delle questioni ancora aperte glissando, assai diplomaticamente e ancor più onestamente di fronte a un pubblico avido di grandi nomi, di fronte alla specifica domanda di Zavattaro se si fosse o meno di fronte a Caravaggio. Ma al contempo ha proposto una tavola rotonda sull’opera, auspicando uno studio comparativo con il S. Francesco di Carpineto Romano. La proposta è stata accolta con entusiasmo dagli addetti ai lavori, e per il “S. Agapito”, dunque, sotto questo profilo si prospettano anni intensi. Sul piano stilistico, certo mancano all’opera il taglio di luce secco e veemente della Vocazione di S. Matteo, la terrificante drammaticità del Giuditta e Oloferne della Galleria Borghese o la sofferenza sommessa della Maddalena della Galleria Pamphili, ma fuor di dubbio, fra tante cose, il gioco di luce del panneggio è la cifra stilistica di un grandissimo. Come gli schizzi di sangue, macabri quanto eloquenti, riproduzione di quelli reali di una decollazione, ha spiegato la Vodret. In linea, dunque, con l’istanza di mimesi artistica maniacalmente coltivata dal maestro lombardo.

Concordemente plauditori della grandezza dell’opera, i relatori hanno amichevolmente acceso il dibattito in merito al santo raffigurato. L’iniziale tesi di Marini, fermo su S. Gennaro, pare essere stata accolta anche da Rossella Vodret. Di altro avviso Maurizio Calvesi, propugnatore della tesi S. Agapito in virtù di una probabile committenza dei Colonna di Palestrina, favorita dagli stretti legami familiari con l’artista. La realizzazione in loco sostenuta da Calvesi è il punto forte della sua ipotesi: dipinto a Palestrina, un martire decollato non può che essere il patrono. La discordia si nutre del fatto che le attinenze agiografiche e inconografiche dei santi possono ingenerare confusione: ambedue martiri, decapitati sotto l’impero, e con i leoni tra gli attributi iconografici. E se le ampolle di sangue poggiate a terra richiamano Gennaro, il fumo, non visibile ma individuato dai restauratori nell’opera, ricorda il fumum teterritum delle Passiones altomedievali di Agapito. La falla documentaria sul luogo sul luogo di realizzazione rende sostenibili, ceteris paribus, entrambe le ipotesi, in un cortocircuito destinato a non sbloccarsi fino alla scoperta di nuovi documenti. Il pubblico e il Vescovo, viceversa, non hanno avuto dubbi: S. Agapito, per acclamazione. L’ipotesi più plausibile pare essere quella intermedia: il dipinto, un S. Gennaro dipinto a Napoli, potrebbe essere stato portato a Palestrina ed esposto alla venerazione come S. Agapito. E al significato artistico, che rimarrebbe intatto, si somma quello religioso, con il pensiero che l’opera, già meravigliosa di per sé, potrebbe lasciare una scia di 400 anni di devozione.

D’altronde l’autografia di un’opera, per i fini veri e aulici dell’arte, non ha quel valore che la critica vulgata ha la velleità di assegnarle. Il valore della creazione artistica sta tutto nell’esperienza estetica, quanto di più soggettivo, cioè, si possa postulare. Lo spettatore è l’altro termine di paragone dell’opera, e poiché gli artisti come Caravaggio non erano esegeti di se stessi, non facevano altro che trasformare in materia pittorica la loro esperienza di spettatori del mondo. E oggi, chi nelle stanze del Museo Diocesano si trova di fronte ad Agapito, in lui vede riflessi devozione, ricordi, esperienze; la realtà, sintetizzata eppur sublimata dall’artista sulla tela. E in definitiva, sarà chiamato a compiere a ritroso il percorso di Caravaggio. E sarà proprio a Caravaggio, così, che riusciremo a sentirci più vicini.

Conferenza La tradizione della «Passio sancti Agapeti martyris»

Con uno sguardo verso il passato meno noto e la cultura meno alla ribalta, terrò Domenica 25 Gennaio 2009la conferenza “La tradizione della Passio s. Agapeti Martyris”. Al centro dell’incontro la tradizione letteraria in lingua latina creatasi, in epoca altomedievale, intorno alla figura storica di s. Agapito. Alla Letteratura Latina Medievale sul santo ho dedicato la mia Tesi di Laure in Lettere, e con l’incontro di domani desidero portare a conoscenza del pubblico i risultati del mio lavoro.
È previsto un incontro a 360 gradi, con la lettura del testo medievale più celebre, la cosiddetta “Passione mombriziana” e l’ introduzione al genere letterario e a fondamenti di filologia, per passare poi alla ricostruzione della famiglia dei testi, dei loro rapporti, e della loro fortuna in più di un millennio di storia.
Un incontro per tutti, specialisti, addetti ai lavori ma anche soltanto curiosi: il taglio della conferenza sarà assolutamente divulgativo, così da permettere ad ognuno di compiere lo stesso tuffo nel passato dell’autore.Il tutto godendo della rinascita di testi finora sconosciuti, ma che hanno creato attraverso i secoli la devozione nei confronti del santo martire patrono di Palestrina e della Diocesi prenestina.
L’appuntamento è per domenica 25 gennaio alle ore 17.30, a Palazzo Barberini presso la Sala della Trifora; Palestrina (RM).

L’immigrazione in Provincia

Non solo la capitale. Il fenomeno immigrazione, nuova frontiera sociologica dell’Italia contemporanea, tocca sensibilmente la Provincia di Roma, che si vede progressivamente mutata nelle strutture demografiche al pari delle realtà metropolitane maggiormente globalizzate.
L’affresco restituito dai numeri forniti dalla Caritasi diocesana di Roma, che nel XVIII dossier statistico ha fornito il computo degli immigrati regolari nel Lazio, testimonia un ruolo primario delle realtà territoriali nell’accoglienza degli stranieri nel Lazio; trecentomila a Roma, centomila in Provincia. Numeri ampiamente sotto la verità effettiva delle cose, sia dal punto di vista statistico, dal momento che non sono stati inclusi quanto si fermano per meno di tre mesi (in seguito del cambiamento normativo), sia, soprattutto, il computo non comprende il grande numero dei clandestini.
Se i numeri sono lontani da una restituzione verace della situazione, più utili i dati sulla composizione di tale consistente fascia della società: l’80 percento del campione possiede un livello di istruzione superiore, consistente inoltre il numero dei lavoratori regolari, ancora l’80 percento. Soprattutto stupisce il numero degli imprenditori; alla Camera di Commercio sono registrati 15.490 cittadini stranieri titolari di impresa, ben il 4 percento sul totale delle aziende romane. Una larga fetta di imprenditori è ascritta al settore edilizio per il quale, ormai da anni, la tendenza è a un vero e proprio cambiamento generazionale tra italiani e stranieri . Soprattuto nell’immenso numero degli operai, gli immigrati, forti della volontà di svolgere lavori manuali malgrado spesso siano spinti dalla necessità ad accantonare preparazione scolastica e tecnica, stanno tappando quell’immenso vuoto lasciato dai giovani italiani.
E proprio sul ruolo degli immigrati nel lavoro si sono incentrati gli Stati Generali contro il razzismo, infelice nome scelto dalla Provincia di Roma per un convegno su immigrazione e intolleranza organizzata dalla Provincia con la partecipazione di cittadini, istituzioni e associazioni del territorio. «Il popolo dei migranti è un popolo di lavoratori e lavoratrici che in questi anni ha aggunto alla ricchezza di questo territorio» ha ricordato la delegata Cgil all’immigrazione. Ma per causticità e spietata descrizione della realtà si è distinto su tutti l’intervento di Laura Boldrini, rappresentante italiana dell’Alto Commissariato dell’Onu per i Diritti dei Rifugiati, che ha accusato pesantemente le istituzioni: «Dieci anni fa, quando si preparava il terreno al razzismo di oggi, la politica non c’era. Se per alcuni la battaglia contro gli immigrati è stata la possibilità di affermare le proprie carriere politiche, per altri è stato un ‘non problema’».
E sul lato economico del problema, Laura Bodrini ha continuato a tacciare di immobilismo il Governo, ricordando che gli unici fondi disponibili per una decorosa accoglienza degli immigrati in fuga si sono persi nella spericolata manovra economica che continua, malgrado tutto, a martorizzare l’Italia.

Con Valerio Cleri alle Olimpiadi di Pechino

Siviglia, fredde acque del fiume Guavalquiivir. Ai mondiali del nuoto di fondo, 10 km di bracciate che valgono, oltre al titolo iridato, le qualificazioni a Pechino 2008, Valerio Cleri, classe 1981, segna una data storica per lo sport italiano. Piazzandosi ottavo, guadagna l’accesso alla gara del 21 agosto, quando per la prima volta nella storia il fondo sarà olimpionico.
Valerio farà parte della grande squadra azzurra che, capitanata dal veterano canoista Antonio Rossi, conterà sulla forza di 347 atleti, di cui 215 uomini e 132 donne. Il nuotatore azzurro, esordiente assoluto nella competizione dei cinque cerchi, attualmente è in forza nella squadra dell’Esercito, e si allena a Roma sotto la supervisione tecnica di Emanuele Sacchi. Il traguardo raggiunto, partendo da una piccola realtà come quella della sua città natale, Palestrina, ha dello straordinario. Ciononostante, è un ragazzo cordiale, disponibile, pronto al sorriso e prodigo nel raccontare i particolari della sua bellissima storia.
Molte le speranze riposte in lui da parte dell’Italia dello sport, ma senza dimenticare che una qualificazione alle Olimpiadi, per un atleta, è uno dei traguardi più importanti a cui aspirare, che Valerio ha già felicemente raggiunto.

Ormai il mondo conta le ore che mancano all’inizio dei Giochi. Tu, partito dalla piscina, rappresenterai l’Italia nel nuoto di fondo. Come sei arrivato a questo sport?
Fin da bambino ho nuotato in piscina, infatti, mentre con il fondo ho iniziato tre anni fa, forse anche per gioco, ma senza abbandonare le gare indoor; proprio la scorsa settimana ho partecipato ai campionati italiani assoluti. Ma la cosa più curiosa è che proprio mentre iniziavo questa nuova sfida sportiva, arrivò la notizia dell’ammissione del fondo nel novero degli sport olimpici. E poi le gare, i piazzamenti, e la qualificazione di maggio…

Quali sono le particolarità, e le difficoltà di questo sport?
Conta molto l’esperienza, davvero molto. Si tratta di gare lunghe e difficili, durante le quali è assolutamente necessario sapersi adattare ad ogni tipo di situazione, con la competizione che può svolgersi in mare, fiume, lago o bacini di vario genere. L’acqua può essere calda, fredda, e soprattutto le gare non hanno un numero fisso di nuotatori, quindi possono esserci 20, 30 o anche 50 o più competitori. Le qualificazioni di Siviglia si sono svolte in fiume, ma l’acqua era decisamente fredda. E ogni gara è una storia a sé, ad esempio con la forma dei percorsi, che possono essere rettilinei, anche se molto raramente, oppure quadrati, triangolari. Bisogna davvero essere in grado di gestire qualsiasi situazione, anche imprevisti naturali come le onde o le correnti, e anche insidie animali come le meduse. Il mio avvicinamento a questo mondo è stato portato avanti soprattutto attraverso le gare, sia a livello nazionale che a livello mondiale.

Hai parlato delle difficoltà delle gare con molti atleti in competizione. Quali problemi intervengono in competizioni di questo tipo?
Bisogna cercare il proprio ritmo e la propria nuotata, ma anche cercare di restare in mezzo al gruppo. Ma avere gente vicino può risultare complicato, soprattutto perché capita spesso di subire scorrettezze. Gli arbitri ci sono, ammoniscono e squalificano da barche disseminate lungo il percorso, ma in mezzo a un gruppo numeroso può risultare difficoltoso accorgersi di atleti che danno colpi agli avversari, specialmente se ciò avviene sotto la superficie.

Hai mai subito comportamenti antisportivi?
È capitato, si. In quel caso, è importante restare calmi, cercare di difendersi nei limiti del possibile, e andare avanti.

E alla gara del 21 agosto in quanti sarete alla partenza? Quanti italiani?
Saremo 25 nuotatori, un numero abbastanza contenuto. Per l’Italia soltanto io, mentre tra le donne gareggerà Martina Grimaldi, che si è qualificata il 31 maggio nuotando nello stesso bacino che ospiterà la competizione finale.

E della tua storica qualificazione, cosa ricordi oltre alla felicità per il risultato?
A Siviglia è stata una gara difficile. L’acqua era fredda, e soprattutto eravamo tantissimi a nuotare, ben 60 atleti in un campo di gara di dimensioni ridotte. Si trattava di uno spazio dove di solito si pratica il canottaggio, lungo circa 3 km ma largo al massimo 70 metri. Un percorso già obbligato, dove la difficoltà è aumentata dal fatto di dover nuotare molto vicino agli avversari. Una situazione con vantaggi e svantaggi.

Quali, ad esempio?
Nuotando ravvicinati un fattore importante del quale tener conto è la scia, che in acqua è ancora più importante che per gli sport su ruota, vista la grandissima differenza di densità del liquido. Stando dietro a uno o più atleti si guadagna sensibilmente, anche stando leggermente scostati. E in una gara di dieci chilometri, è naturale che dinamiche di questo tipo vadano sfruttate nel miglior modo possibile.

Alle Olimpiadi vedremo decine di sport. A quale di questi, nell’approccio mentale, potresti paragonare la tua disciplina?
A livello tattico e nelle strategie che si seguono durante lo svolgimento della gara, forse direi il ciclismo. Anche se, conti alla mano, nel nuoto il gioco tattico è meno influente. Ci sono meno atleti, e non si può fare l’andatura in troppi.

Una domanda quasi d’obbligo: hai un pronostico per la gara?
Beh, posso dire soltanto che questo tipo di sport ha dei margini di incertezza altissimi. Può sempre capitare che un atleta sia particolarmente in forma, o che durante la gara possa succederti qualcosa. Ad esempio a Pechino troveremo il problema dell’inquinamento atmosferico, che penalizzerà le prestazioni degli atleti, e sicuramente ci sarà chi ne soffrirà di più, chi di meno. Con variabili così, un atleta che alla vigilia non era tra i favoriti, può uscire alla grande durante la competizione. Nel nuoto di fondo le previsioni sono veramente ardue…

A tuo avviso, quali saranno gli avversari da tenere a bada?
Credo che saranno una decina i nuotatori che potranno fare meglio degli altri. Dovendo fare dei nomi, penserei all’olandese Van Der Veijden, al tedesco Thomas Lurz, al britannico David Davies. E naturalmente al campione del mondo, il russo Vladimir Dyatchin, un grande atleta.

Come stai vivendo questo momento al di fuori dell’acqua, con tutti i riconoscimenti, le cerimonie e le lodi che ricevi quotidianamente?
Rigrazio tutti, naturalmente, dalle alte cariche dello Stato a quelle del Ministero della Difesa. I riconoscimenti fanno sempre piacere, anche se le soddisfazioni più grandi sono altre, quelle che derivano dalla competizione, quando sono in acqua e nuoto.

Polizia Provinciale: una riforma alla cieca

È un grande punto interrogativo la risposta più comune del cittadino davanti alla questione Polizia Provinciale. Una forza di sicurezza meno nota ai più, presenza evanescente sul territorio del quale porta il nome. Piuttosto è con curiosità che si reagisce laddove si ha la ventura di imbattersi, in maniera più o meno fortuita, in uno dei 264 agenti distribuiti in maniera tutt’altro che capillare sul territorio. Secondo le fonti ufficiali, sarebbero 26 le pattuglie impegnate ogni giorno, ad esempio, nei controlli stradali. Ma si tratta, e basta percorrere statali e provinciali, di una presenza tanto eterogenea da legittimare seri dubbi in merito alla sua organica gestione.
Con il Comando centrale a Roma, distaccamenti a Bracciano, Colleferro, Fiumicino, Tivoli e Lavinio e un organico totale di circa 300 unità, la Polizia Provinciale ha festeggiato lo scorso maggio i primi dieci anni di attività, da quel 1998 che vide la fusione in un’unico corpo di Agenti Faunistici e Vigili Stradali Provinciali. Alla nuova forza di polizia venne allora affidata la tutela dell’ambiente, della fauna, dei boschi e delle acque interne. Oggi il Presidente della Provincia, Nicola Zingaretti, pianifica una riforma del Corpo da realizzarsi entro l’anno, con l’idea di unire agli originari settori di competenza anche funzioni come “la tutela della sicurezza sul posto di lavoro, con ispezioni nei cantieri, e il contrasto al degrado”. Campi d’azione che si aggiungerebbero a quelli nel frattempo ascritti alla Provinciale, che spaziano, relativamente ai territori extraurbani, dalla disciplina della gestione dei rifiuti al controllo delle acque, dalla salvaguardia delle aree protette alla vigilanza in materia turistica. L’elenco completo delle mansioni, decisamente più ampio, non può non far pensare alle pesanti sovrapposizioni di poteri e alla confusione di competenze, in parte già attive, che verrebbero a crearsi quali naturali conseguenze dell’estensione di poteri. Senza contare, dalla parte del cittadino, l’incremento dello stato di disorientamento frutto della già sovrabbondante moltiplicazione a livello nazionale di corpi di sicurezza, non assecondato, peraltro, da un congruo numero di agenti totali. Ma soprattutto la riforma prevista ha tutta l’aria di essere una manovra dalle gambe assai corte, dal momento che arriva alla vigilia dell’abolizione, o della consistente ristrutturazione, dell’Ente Provincia, che mai come nella sua storia è – o dovrebbe essere – sull’orlo di un baratro. Tra i fautori della chisura in primis il Governo, che se dovesse tener fede a uno dei punti cardine della campagna elettorale dovrebbe decretarne a breve l’abolizione. Ma anche Zingaretti ha voluto metterci del suo, spiegando in una nota il progetto di trasformazione della Provincia in un grande Ente metropolitano con Roma al centro.
Insomma, se la Provincia di Roma è destinata a dissolversi, come negli antichi desideri del Governo Berlusconi, o se è destinata a trasformarsi in un Ente sincretico, affidare rinnovati poteri oggi quando domani dovranno essere emendati o trasferiti, esce fuori da ogni logica. O forse la Provincia, diversamente da come paventato da più voci, non ha davanti a sé una vita breve come quella che la politica del risparmio voleva.

Anche l’Anci nella lotta ai fannulloni

Lo scopo è uno: “consolidare nel Paese, in tutto il Paese, una cultura del lavoro che vede l’azione pubblica come prestazione alla collettività.” Vexata questio nelle parole con le quali l’Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani) ha presentato la scorsa settimana il convegno su Efficienza, Merito e Valutazione nei Comuni.
Parole pacate, che male celano tuttavia l’annoso problema di quegli impiegati del settore pubblico che, in una vera e propria truffa allo Stato, sfruttano un potere tutto italiano come quello della burocrazia per farsi trovare dal rassegnato utente di volta in volta inefficienti, assenteisti, indolenti e, ancora più spesso, con una una scarsa propensione ai rapporti interpersonali quando non con una vera e propria mancanza d’educazione nei confronti del cittadino che, ben inteso, nel meccanismo circolare della democrazia è al contempo datore di lavoro.
Che sia un problema d’attualità è una falsa verità, visto che il problema in Italia si perde nelle notte dei tempi. Vento di novità, invece, per l’ambiente dal quale l’analisi e le soluzioni sono arrivate, quello della politica, con quel Roberto Brunetta Ministro della Pubblica Amministrazione e dell’Innovazione che ha bandito una vera e propria crociata verso i dipendenti pubblici truffaldini, presentando la sua rivoluzione copernicana al grande pubblico in una intensa puntata di Matrix di qualche tempo fa, quando si è profuso in una colorita quanto ineccepibile filippica.
Lo stesso Ministro Brunetta che è intervenuto l’8 luglio al Convegno dell’Anci, la quale diventa così la seconda realtà del Paese a investire energie in una delle tante italiche lotte agli sprechi. Con in più il delicato compito di adeguare i mezzi alle peculiarità che il pubblico impiego ha nelle realtà dell’amministrazione locale. Non diluiti nei grandi corridoi ministeriali, meno strutturati in gerarchie rigide, i dipendenti degli enti minori presentano una realtà del tutto propria, soggetta a diversi rischi e a problematiche differenti. Nessuna imposizione del timbro sul cartellino e ritardi a lavoro, uso privato di automezzi comunali, telefoni e mezzi informatici, scarsa produttività negli enti locali hanno modalità del tutto diverse. E con sistemi di incentivazione e, si spera, finalmente sanzione, l’Anci si propone di rimettere in moto la bolsa macchina burocratica anche ai livelli più bassi.
Il problema è noto, i mezzi si stanno discutendo, il settore del pubblico impiego è un terreno minato, sul quale, tuttavia, ognuno deve fare la propria parte. Perché se un impiegato non svolge il proprio lavoro, se si comporta maleducatamente, è diritto e dovere del cittadino denunciare l’abuso. Perché lo Stato, checché se ne dica, è dei cittadini, tutti nessuno escluso.

Nel Nome del Rock: questo concerto non s’ha da fare?

Nulla ha potuto la diaspora suburbana, né a qualcosa è valso il gran rifiuto perpetrato dal comitato di turno. Nel Nome del Rock, è il caso di dirlo, si è fatto proprio nel nome del rock. E ancora una volta ha offerto spettacolo. Perché è vero che il rock è brutto sporco e cattivo, ma è altrettanto vero che in un universo musicale irretito dalle globalizzate e globalizzanti leggi di mercato e defraudato della propria arte dall’onda pop o pseudo-rock, il buon vecchio metallo, l’elettronica, quella sana, chitarre, bassi, batterie e compagnia bella gettano un’ancora di salvezza dal vascello in fiamme di chi la musica la fa e la ascolta per passione e con cognizione di causa.

Qualcuno in città l’ha intuito, ha capito che ospitare la manifestazione è un onore piuttosto che un onere, e ha offerto quello che altri avevano negato agli organizzatori di un evento reo di sparare una pletora di decibel, ma mai sufficientemente plaudito per aver portato sullo storico palco del Principe artisti i cui nomi è superfluo snocciolare. La stessa lungimiranza è mancata invece a chi ha rifiutato di farsi ospite e pigmalione dei concerti. Perché si sa, la mia cultura è migliore della tua. E per quanto Cicerone possa essere di certo più silenzioso di Hendrix, non è detto che sia migliore. Blasfemo colui che incasella e gerarchizza la cultura, quasi come se chi gustasse un carme oraziano non potesse poi metter su lo scoppiettante caldo fruscio di un vinile degli Zeppelin.

Insomma, tre giorni di pazienti tribolazioni sarebbero state un tributo eccessivo per una manifestazione-vessillo come Nel Nome del Rock, in una città che viceversa tende ad esaltare senza remore qualunque minuzia produca. Ma per fortuna è bastato percorrere pochi chilometri per trovare un’altra visione del mondo, una disponibilità inaspettata, in quel di Quadrelle il cui comitato, non c’è che dire, ha fatto un figurone. E adesso, agli occhi della gente, come mutano gli equilibri? Nel Nome del Rock non può che guadagnare le simpatie popolari, alla stregua dell’eroe del romanzo d’appendice che, dopo le peripezie di rito, trova la soluzione dei suoi guai. Ma le stesse simpatie l’artefice (o gli artefici) del gran rifiuto, di chiunque si tratti ma non è importante, le hanno poco elegantemente alienate. Ben magra figura, dice vox populi, in attesa di vedere come il prossimo anno la festa di quartiere pagherà lo scotto della vicenda.

L’XI edizione del Premio Albatros

Il protagonista non cambia: il viaggio, visto dalla prospettiva dell’arte. Dell’arte, e non soltanto della letteratura, alla quale pure la manifestazione deve la sua ragion d’essere, perché anche l’edizione 2008 avrà due grandi anime: il premio letterario e il festival di cortometraggi, insieme a consuete e desuete esibizioni teatrali e musicali.

Né lo spirito dell’Albatros è scemato negli anni, ascoltando le parole di Giuseppe Lombardi, socio della Lupus in Fabula: “Nonostante abbiamo, chi più chi meno, anche cinquant’anni, mi accorgo che lavoriamo ancora con la voglia e la forza degli inizi, e intendiamo andare ancora avanti”. A porre un freno all’inventiva sono piuttosto difficoltà mondane, con contributi pecuniari relativamente contenuti o, meglio, malamente proporzionati agli standards cui gli aficionados dell’Albatros sono avvezzi. Ciononostante, le Amministrazioni non hanno fatto mancare del tutto il loro appoggio, a tutti i livelli istituzionali. E, tengono a precisare i soci, sono stati vitali gli sponsor privati, uno in particolare, che ha creduto nel progetto con un impegno importante. A conti fatti dunque, il vilipendio che la cultura tout court subisce a causa della mancanza di investimenti non ha risparmiato il Premio e, diversamente da quanto la Lupus era adusa, la manifestazione non potrà essere dedicata a una particolare nazione o a un continente specifico, come viceversa era successo in passato. Niente spazi per le celebri scenografie cittadine dunque, un tocco di colore tra le antiche vestigia; indimenticabile, nell’edizione africana, l’oasi verde con riproduzioni di animali selvatici intenti ad abbeverarsi in piazza della Liberazione. E ancora l’impossibilità di avere invitati di prestigio, come quel Carlo Lucarelli fortemente cercato ma che non calcherà il proscenio prenestino. Un peccato, per tanti motivi, in una lista lunga come il curriculum vitae che l’Albatros ha saputo costruirsi. Come non citare l’emozionante incontro con Tiziano Terzani, che trionfò nella seconda edizione del Premio con il volume In Asia. Per essere presente Terzani rientrò appostitamente dall’India, e l’arrivo a Palestrina fu un’agnizione: completamente vestito di bianco, cinerea barba fluente, quasi un guru, icona, incarnazione del viaggio. O ancora, nella sesta edizione, la testimonianza di Lorenzo Bianchi sulla strage dell’hotel Palestine, portata in occasione della premiazione del volume L’inganno del golfo. Nel 1990, in piena Guerra del Golfo, dopo una battaglia tra americani e iracheni un carro armato USA bombardò l’hotel, pieno di giornalisti di tutto il mondo, apparentemente senza motivo. Pretestuose fuorono poi le motivazioni addotte dalla diplomazia statunitense. Bianchi ricostruì l’episodio in 20 minuti, portando la sua esperienza diretta e suscitando perplessità e sgomento. Perché l’Albatros non è stata mai soltanto una passarella di pur blasonati autori, né una competizione tra case editrici, critici e autori. Piuttosto si è trattato di una proposta di impegno certo, ma anche di apertura, da una piccola realtà di provincia a un universo che mai si è voluto fosse irretito da confini geografici o reticenze.

E questa edizione, malgrado lo scarno viatico, cerca ancora di offrire ancora varietà e multiformità. Si è cominciato lo scorso sabato, quando sono stati gli stessi lettori a guadagnare la ribalta, incaricandosi di presentare le opere in concorso in piazzetta del Borgo, mentre nella Sala della Trifora veniva presentata l’edizione del Premio. Mercoledi 25, nella casa natale di Pierluigi, spazio per gli studenti dell’omonima scuola media con la piéce teatrale Terra di mezzo, preparata in occasione dell’Anno Europeo del Dialogo Interculturale. La stessa sera, ha avuto luogo la proiezione dei cortometraggi del concorso, giunto alla quarta edizione, L’Albatros in corto. La sezione cinematografica è un’iniziativa portata avanti da qualche anno per dare al premio uno stampo sempre più vario e di ampio respiro” spiega Giuseppe Lombardi, responsabile del settore “ma è un campo arduo, i festival di corti in Italia abbondano, e noi siamo ancora in fase embrionale”. Ancora esibizioni giovedi, con Emigranti Esprèss, reading e musica in forma di monologo dell’attore Mario Perrotta, e venerdi, con il concerto di musica etnica della Piccola Banda Ikona. Infine il clou della manifestazione oggi dalle ore 18, con incontri ed esibizioni concentrate tra museo e Santuario di Fortuna. Alle 18 apertura con il concerto di musica barocca della John Cabot Chamber Orchestra, già a Roma per il festival internazionale barocco. Alle 21, presso la cava teatrale, la premiazione del cortometraggio vincitore e, alla presenza degli autori finalisti e della doppia giuria, l’assegnazione del Premio Albatros. La giuria premiante è composta quest’anno da Luigi Cinque (musicista), Presidente, Errico Buonanno (scrittore e giornalista), Tiziana de Rogatis (ricercatrice), Luca Mastrantonio (giornalista), Carola Susani (scrittrice); come di consueto sarà affiancata dalla giuria degli studenti: Alina Alexandrescu, Vanessa Veccia, Francesca Cimaglia, Laura Di Giovanni, Damiano Scaramella, Serena Pinci, Maria Teresa Papaluca, Samanta Acanfora. Ciascuna delle due giurie ha stilato una lista dei tre finalisti, e premierà il proprio vincitore. Gli studenti hanno selezionato Forza 16 (Lucilla Aglioti), Solo in Italia (Antonio Pascale) e La cortina di marzapane (Heman Zed), i membri della giuria Ultimo parallelo (Filippo Tuena), Solo in Italia (Antonio Pascale), Sardinia Blues (Flavio Soriga). Solo in Italia è il solo testo condiviso dunque dalle due giurie, e il meccanismo del doppio gudizio-premiazione si fa sempre più interessante, nella misura in cui dà atto del potenziale differente approccio alla letteratura da parte degli addetti ai lavori e delle generazioni di studenti che negli anni sono state chiamate a partecipare alla manifestazione.

L’Albatros parla di immigrazione

Alla fine il tema della manifestazione, che in sede di organizzazione non era stato pianificato, è venuto fuori da sé, quasi per automatica elezione: l’immigrazione, lo spostamento dei popoli e la commistione culturale, figlie del viaggio intrapreso per necessità e spirito di conservazione, più che per diletto o per lavoro.
Un fil rouge partito dall’incontro tra pubblico e studenti della scuola media Pierluigi, mercoledi 25, quando è stato portato in scena lo spettacolo Terra di Mezzo. Un’occasione di dialogo che è andata oltre la dimensione di una piéce, con i giovani, di tutte le nazionalità, che hanno raccontato le loro storie di marginalità e intolleranza, dischiudendo innanzi agli occhi degli spettatori un universo noto da punti di vista quasi sempre parziali, e che mai era stato visto dalla prospettiva degli adolescenti in questo modo. Vita vissuta, dunque, con una mimesi tanto spiccata da richiedere la lingua madre per alcune delle parti recitate. Uno sguardo all’immigrazione e all’incontro ha animato anche il concerto della Piccola Banda Ikona venerdi 27. Musica etnica senza limiti e confini, all’interno di quell’ancestrale accogliente casa che è sempre stata il mar Mediterraneo. Quasi un periplo in note, con la proposta di musicisti che hanno dato vita a un’esibizione sui generis, commistione di tradizioni musicali e generi: echi jazz, musica romena, contaminazioni zingare, un tributo alla culla della civiltà occidentale, da sempre protagonista della storia e dei viaggi tra Europa, Africa ed Asia.

Filippo Tuena, invece, e il suo Ultimo parallelo, hanno trionfato nella serata finale, in una premiazione all’insegna del colloquio tra pubblico e spettatori. Con lo sfondo di un ‘veliero maledetto’ approntato scenograficamente sulle strutture della cavea, i tre finalisti si sono dimostrati veri istrioni, dimostrando doti di intrattenimento e presa sul pubblico. Clima informale dunque, con spazio per aneddoti, spaccati di vita vissuta degli autori e divertimento. Che, inutile negarlo, non guasta mai. Tra gli intramezzi con letture di brani dei tre testi finalisti, la giuria ha dunque scelto Ultimo parallelo, un felice connubio narrativo tra scenari immaginari e dato storico. Nel 1912, per 142 giorni, l’ufficiale di marina Robert Falcon Scott, capitano di una squadra di esploratori britannici, tentò la conquista del polo sud. Dell’avventura, dall’esito gravemente infelice, restano tracce documentarie nei diari e nelle foto dei protagonisti, testimonianze di disperazione, sconfitta, paura. Ed è stata questa la base sulla quale Tuena ha eretto la sua costruzione narrativa, integrando e rimodellando con un potere immaginifico non comune la scarna scia che gli sventurati hanno lasciato dietro di sé. Una scelta arguta, per un romanzo al contempo di viaggio e, plausibilmente, storico. Da annotare come l’autore abbia descritto in maniera anche circostanziata l’Antartide senza mai averne calpestato i ghiacci. Alla Salgari, che molto ha scritto sui sette mari e su esotiche isole senza mai averli guardati con occhi che non fossero quelli della mente. “Il labirinto dei ghiacci in cui si perdono è anche il labirinto della ragione occidentale” spiega la giuria dell’Albatros nella motivazione della scelta “la loro volontà di conquista è anche l’arrogante onnipotenza della nostra civiltà. La metamorfosi della rotta, scandita inizialmente dalle mappe, verificata dagli strumenti di misurazione, in erranza, vagabondaggio, dedalo del corpo e deliro della mente, la metamorfosi – quindi – dei vincitori in vinti racconta anche il declino del mito di Ulisse”.

Il premio della giuria dei ragazzi è andato a Heman Zed, autore de La cortina di marzapane. Un’opera prima di un italianissimo, padovano, ex dj, ex importatore di abbigliamento fetish, di tendenza e anelli per piercing. Una vita che è un viaggio, con la decisione di lasciare l’attività di import per collaborare con un’associazione no profit impegnata nel sociale. E proprio da questo contesto di rinnovamento personale è nato il libro, la storia di un ragazzo che cresce nella costante tensione verso i Paesi dell’Est, tra sogno, realtà e avventura. Un’opera che ha già avuto una riduzione teatrale. Il cortometraggio vincitore è Autoritratto, del 2004, di Francesco Amato. Un piccolissimo viaggio di cinque minuti di un anonimo impiegato che si rende conto, con una geniale trovata filmica, di non avere personalità, e se ne crea una artificialmente. Ma è anche una storia d’amore tra il protagonista e una donna che scopre a sua volta di essere altrettanto anonima. Un racconto di marginalità, insipienza, tra echi kafkiani e gogoliani.